lunedì 7 marzo 2011

Un uomo ride e un altro uomo piange...


"...
Un uomo ride e un altro uomo piange. Tutti e due sono uomini; anche quello che ride è stato malato, è malato, eppure egli ride 'perché' l' altro piange. Egli può massacrare, perseguitare, e uno che, nella non speranza, lo vede che ride sui suoi giornali e manifesti di giornali (allusione alle dittature europee del '900 -n.d.r.), non va con lui che ride ma semmai piange, nella quiete, con l' altro che piange. Non ogni uomo è uomo, allora. Uno perseguita, e uno è perseguitato; e genere umano non è tutto il genere umano, ma quello soltanto del perseguitato. Uccidete un uomo; egli sarà più uomo. E così è più uomo un malato, un affamato; è più genere umano il genere umano dei morti di fame.
Chiesi a mia madre: " Tu che ne pensi?"
"Di che?", mia madre disse.
Ed io: " Di tutti questi ai quali fai l' iniezione".
E mia madre: "Penso che forse non potranno pagarmi".
"Va bene", dissi io. "E ogni giorno vai lo stesso da loro, fai loro l' iniezione, e speri che invece possano pagarti, in qualche modo. Ma cosa pensi di loro? Cosa pensi che sono?"
"Io non spero", disse mia madre. "Io so che qualcuno può pagarmi e qualcuno no. Io non spero."
"Pure vai da tutti", dissi io. "Ma cosa pensi di loro?"
"Oh!" mia madre esclamò. "Se vado per uno posso andare anche per un altro", disse. "Non mi costa nulla"
"Ma cosa pensi di loro? Cosa pensi che sono?" io dissi.
Mia madre si fermò in mezzo alla strada dove eravamo e mi rivolse un' occhiata leggermente strabica. Sorrise, anche, e disse: "Che strane domande fai! Cosa debbo pensare che sono? Sono povera gente con un po' di tisi e con un po' di malaria..."
Io scossi il capo. Facevo delle strane domande, mia madre poteva vedere questo, eppure non mi dava delle strane risposte.. Chiesi:
"Hai mai visto un cinese?".
"Certo", mia madre disse. "Ne ho visti due o tre... Passano per vendere le collane".
"Bene", dissi io, "Quando hai davanti un cinese e lo guardi e vedi, nel freddo, che non ha cappotto, e ha il vestito stracciato e le scarpe rotte, che cosa pensi di lui?"
"Ah, nulla di speciale", mia madre rispose, "Vedo molti altri, qui da noi, che non hanno cappotto per il freddo e hanno il vestito stracciato e le scarpe rotte..."
"Bene", dissi io. "Ma lui è un cinese, non conosce la nostra lingua e non può parlare con nessuno, non può ridere mai, viaggia in mezzo a noi con le sue collane e cravatte, con le sue cinture, e non ha pane, non ha soldi, e non vende mai nulla, non ha speranza... Che cosa pensi tu di lui quando lo vedi che è così un povero cinese senza speranza?"
"Oh!" mia madre rispose. "Molti altri vedo che sono così, qui da noi... Poveri siciliani senza speranza".
"Lo so", dissi io. "Ma lui è cinese. Ha la faccia gialla, ha gli occhi obliqui, il naso schiacciato, gli zigomi sporgenti e forse fa puzza. Più di tutti gli altri egli è senza speranza. Non può avere nulla. Che cosa pensi tu di lui?"
"Oh!" rispose mia madre. "Molti altri che non sono poveri cinesi hanno la faccia gialla, il naso schiacciato e forse fanno puzza. Non sono poveri cinesi, sono poveri siciliani, eppure non possono aver nulla".
"Ma vedi", dissi io. "Egli è un povero cinese che si trova in Sicilia, non in Cina, e non può nemmeno parlare del bel tempo con una donna. Un povero siciliano, invece può...".
"Perché un povero cinese non può?" chiese mia madre.
"Bene", dissi io. "Immagino che una donna non darebbe nulla ad un povero viandante che fosse un cinese invece di un siciliano".
Mia madre si accigliò.
"Non saprei", disse.
"Vedi?" io esclamai. "Un povero cinese è più povero di tutti gli altri. Cosa pensi tu di lui?"
Mia madre era stizzita.
"Al diavolo il cinese", disse.
E io esclamai: "Vedi? Egli è il più povero di tutti i poveri e tu lo mandi al diavolo. E quando lo hai mandato al diavolo, non ti sembra che sia più uomo, più genere umano di tutti?"
Mia madre mi guardò sempre stizzita.
"Il cinese?" chiese.
"Il cinese", dissi io. "O anche il povero siciliano che è malato in un letto come questi ai quali fai l' iniezione. Non è più uomo e genere umano, lui?"
"Lui?" disse mia madre.
"Lui", dissi io.
E mia madre chiese: "Più di chi?"
Risposi io: "Più degli altri. Lui che è malato... Soffre".
"Soffre?" esclamò mia madre. "E' la malattia".
"Soltanto?" io dissi.
"Togli la malattia e tutto è passato", disse mia madre. "Non è nulla... E' la malattia".
Allora io chiesi:
"E quando ha fame e soffre, che cos'è?".
"Bene, è la fame", mia madre rispose.
"Soltanto?" io dissi.
"Come no?" disse mia madre. "Dagli da mangiare e tutto è passato. E' la fame".
Io scossi il capo. Non potevo avere strane risposte da mia madre, eppure chiesi ancora:
"E il cinese?".
Mia madre, ora, non mi diede risposta, né strana, né non strana; e si strinse nelle spalle. Essa aveva ragione, naturalmente: togliete la malattia al malato, e non vi sarà più dolore; date da mangiare all' affamato, e non vi sarà dolore. Ma l' uomo nella malattia che cos'è?  E che cosa è nella fame?
Non è, l' uomo nella fame, più uomo? Non è più genere umano? E il cinese? ..."

(Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia, Milano, Bompiani, 1941)

Intellettuali come quelli del secondo dopoguerra, io penso, nobilitano il sentimento dell' italianità: io provo orgoglio a rileggerli, e sono loro grata per questo. Mentalmente li ringrazio d' esser stati e di ricordarmi -attraverso le loro pagine-, che il mio Paese, pur nei drammi e nel dolore del tempo, ospitava voci e spiriti simili. Uomini. Un po' scrittori (Vittorini era autodidatta, operaio in un cantiere edile e poi tipografo. Con Pavese e
Montale, dal '34 si guadagnò da vivere con traduzione di scrittori anglosassoni, contribuendo alla diffusione della letteratura americana contemporanea: Hemingway, Faulkner, Fitzgerald, Saroyan, ed altri)
, capaci di riflessioni filosofiche, sociologiche, politiche.
Parole simili erano, in quel momento storico, coraggiose e censurate dalla dittatura fascista.

La stessa alienazione spirituale del cinese diseredato di allora, è quella dei disgraziati che sbarcano e sbarcheranno sulle nostre coste; la loro essenza è ancora quella che Vittorini vedeva: un surplus di umanità; la meditazione che viene solleticata è affine: aldilà della soluzione dei problemi pratici e sociali (dare lavoro, sostegno, cure a chi soffre di più) resta, oggi come allora e come sempre, sospesa nell' ignoranza la ragione della fatalità del dolore -legge primordiale dell' esistenza- e, con essa, la totale comprensione dei motivi del nostro esistere.

1 commento:

  1. bellissima e profonda la canzone di Peter Gabriel, e la tua nota in calce così amaramente vera...
    ciao Morena
    carla

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