domenica 22 dicembre 2013

Parti d'emicrania.

Osservo, con grande pena e la solita sensazione di noia assassina, il progressivo disfacimento ( a causa del processo inesorabile della senilità ed anche  della sovraesposizione del proprio ego - un po' vile, molto ridicola, quasi sempre per nulla interessante -  che l'uso scriteriato e disinvolto delle varie piattaforme sociali virtuali consente ed illude di amplificare, amplificando perciò la successiva recrudescenza del vizio innato del Narciso) di  quel po' di valore - tutto opinabile, d'altronde - che volevo assolutamente attribuire a qualcuno verso cui provavo un sentimento di timida stima, soprattutto perché -  evidentemente a torto -  da me considerato capace di libero pensiero.
Illusa. 
 
*
 
Ad una persona che (purtroppo) conosco appena e che mi dice cose delicate e gentili, ho scritto d'essere stupefatta per la colossale contraddizione che in me ospito e che mi costringe a provare amore per l'umanità che in fondo disprezzo.
In una saetta improvvisa di consapevolezza, che or ora mi ha fulminata, comprendo che è il solo modo per evitare il suicidio.
Nessun essere integralmente coerente ed anelante alla verità potrebbe sopportare lo spettacolo della vita insidiato dalle sistematiche nefandezze e  miserie ad opera della schiacciante maggioranza degli uomini.
E' necessario sdoppiarsi e pietosamente mentirsi.
 
*
 
 
I sostenitori dell'eterno negano il nulla.
Ma i due, in fondo, ammiccano.
 
 
*
 
Sono certissima d'essere stata, in qualche momento, molto felice.
Ritengo sia successo per pura disattenzione, probabilmente a causa di una miscellanea di diversi elementi.
Sarà andata così: ero ragazzina, non soffrivo di alcun disagio fisico, la mia tana era ancora custodita da chi mi ha generato, sapevo abilmente sognare, la mia vanità era soddisfatta da un discreto interesse altrui nei miei confronti, potevo spesso rigenerarmi nella Natura.
Ora, se pur alle stesse condizioni, proverei vergogna a dimenticare i dolori altrui, umani ed animali.
Ecco perché compiango gli individui felici.


mercoledì 27 novembre 2013

Assenza

 
Presenza assidua dell'assenza, per morte precoce, delle mie radici;
presenza dell'assenza crudele di chi, vivo, ha creduto che uccidermi gli consentisse d'essere.
 
 
Per questo, la condanna che mi rende assente nel mio stesso presente.
 
 


lunedì 25 novembre 2013

Miopia

Molte indoli istintuali amano immediatamente: si commuovono spontaneamente al primo contatto verbale non banale, anche sporadico e breve, oppure scritto e dialogico, per il semplice fatto che il loro piacere maggiore è costituito dall'inebriante esperienza dell'uscita da sé - una sorta di metafisico sgravio e igienizzante trascendenza momentanea che dà loro momenti di euforia leggera -, ma anche a causa della loro attitudine alla meraviglia, ancestrale retaggio degli albori dell'umanità, che le rende naturalmente ed inesorabilmente curiose. Poche altre cose, inoltre, sono conturbanti, misteriose,  stupefacenti, quanto la psiche umana, ed oggi più di sempre, probabilmente,  le più stravaganti ed allucinanti psicosi abitano la "normalità" del nostro essere sociale.
Chissà chi, o che cosa, ha insegnato l'impulso ad amare-a-prescindere; chissà come cresce o come si insedia dentro l'anima, qualunque cosa essa sia.

Scrivo "molte", ma potrei ingannarmi. Forse non sono poi tante, forse ne è rimasta solo qualcuna - non abbastanza per scongiurare l'imminente estinzione del tipo - che inganna un po' sé stessa con tenera compassione di sé, per sentirsi meno sola ed evitarsi almeno la pena dell'autocommiserazione.
Spesso ospitiamo in noi davvero una-due-centomila personalità stratificate o frammenti di personalità necessarie al sostenimento delle nostre maschere e ne consegue che, dato il generale infingimento, data la colossale recita, quasi sempre gli oggetti del nostro amore ne sono intrinsecamente  indegni, giacché noi amiamo spesso soltanto l'ignava speranza che così non sia.

Ne deriva, dunque, una confusa e poco limpida idea d'amore che s'insegue un po' per noia, un po' per inerzia, un po' per disperato bisogno di contatto, ma pur sempre fatto, alla resa dei conti,  della stessa sostanza del niente.

Sta di fatto che  fino a ieri io non nutrivo alcun dubbio: la cosa più importante, in assoluto, è   vivere con il cuore traboccante di sentimenti (non con il corpo perturbato dalle passioni, eh!, non vorrei essere fraintesa... ho scritto "sentimenti" e la passione è accessoria), e lo è per TUTTI: mi ci sarei giocata qualsiasi cosa.
Ogni scelta, opportunità, oggettiva vicenda della mia esistenza, coerentemente, hanno avuto la stessa spinta propulsiva, sempre dettata da uguale essenza sentimentale.
Perché, allora, contemplo  adesso soltanto un raccolto d'amarezza?
Perché la sintesi di qualsiasi rapporto umano rimane la delusione?
Gli altri son tutti cattivi ed io son buona?
Mi son rovinata a suon di sogni, letture, pensieri circolari, immaginazione?

No, non è così, ovviamente: si tratta di difetto di vista.
Ciò è quantomeno sconcertante. Vedere solo quel che si può e si vuole vedere, nonostante i puntigliosi tentativi di obiettività e tutte le armi dell'intuizione sfoderate, ci consegna in modo irrimediabile all'impotenza ed allo strapotere del caso e della fortuna.

Allora non abbiamo scelta: dati l'immutabilità della natura umana, i suoi abissi, le sue vette, le sue miserie ed i limiti tutti, che non la sottraggono comunque ad alcuna velleità, torneremo alla nostra solitaria anarchia autentica, abbandonando finalmente le frustranti illusioni di contatto: unico riguardo da rendere all'intelligenza e all'onestà - sempre opinabili ma teoricamente concesse -, dell'altro.
Tanto, non lo vedremmo mai con chiarezza e se lo potessimo vedere nella maggioranza dei casi ci ripugnerebbe.

 

mercoledì 6 novembre 2013

Parole spente -3- Compassione

Che ci si parla a fare: non c'è verbo che non rimbalzi, per poi infrangersi ed estinguersi, contro il sostanziale muro di gomma di cui ciascuno di noi s'è dotato.
Ci si incontra, tra umani, sfiorandosi appena, con tutto l'armamentario di difesa sfoderato: l'altro è e deve rimanere - evidentemente -  oscuro, indefinito, prudenzialmente e ragionevolmente lontano.
E' questo il solo modo che ci consente di lasciare inalterata la focalizzazione che più di ogni altra ci preme operare nei nostri pensieri: noi stessi.
Se così non fosse, la partecipazione vera al dolore altrui, con ogni probabilità, ci schiaccerebbe ed il terrificante peso della complessità del vivere, attraverso le necessarie millanta connessioni logico/ideali/materiali/immaginarie, se osservate ed operate con scrupolo, ci manderebbe in tilt anche le più sofisticate sinapsi cerebrali.
Questo, solo se si suppone una certa onestà intellettuale e quell'integrità fisiologica e psicologica di cui qualcuno è sciaguratamente dotato e che lo rende, essendo quella insindacabile ed immodificabile, totalmente inadatto alla vita del consorzio sociale in cui si ritrova, suo malgrado, ad annaspare.
 
Gli intellettualmente disonesti  il problema non se lo pongono affatto: recitare la parte, entro i limiti canonici concessi dalla generale ipocrisia concordata per il buon vivere civile è, evidentemente, abbastanza.
E' loro sufficiente fare qualche escursione  pietistica, demagogica e breve, o di sedicente partecipazione verbale, per dirsi sensibili nei confronti della sofferenza: anche una delle più popolari autorità morali, la Chiesa stessa, grandissima meretrice, insegna, d'altronde, da sempre,  che tra il predicare e l'osservare i precetti vi può essere ampio e tollerabilissimo scollamento, tanto che il paradigma del suo messaggio sta tutto nel "più soffri e meglio ti assicuri la futura vita ultraterrena": una sorta di investimento fruttifero tacitamente siglato da bulla papale, a patto che a soffrire sia sempre qualche altro povero diavolo e checché ne dicano i suoi fedeli più acculturati, sempre solidali nel dogmatismo della Religione anche quando la loro supponenza e le loro velleità oscure li fa dichiarare d'essere invece consapevoli, un po' eretici, svegli e critici.

Sugli affari e sui modi solo terrestri, poi, nulla cambia in fondo di molto e trionfano in modo piuttosto abbagliante le ovvietà  che saranno pure degne del  popolino triviale, ma non per questo men vere.
La più ovvia di tutte è che nessuno troverà mai un'anima che si fregi amica o amante capace di partecipare davvero alla propria sofferenza, che lei non potrà mai sentire tanto "sua" e disdicevole quanto il fastidio che le procura quella pipita all'unghia del mignolo.

Dovesse, il dolore che si prova, avere connotazioni pure metafisiche, dal pragmatico considerate sempre oziose... beh, allora Compassione non soltanto tra i due s'è spenta: per quest'ultimo non era neppure brillata mai un solo istante e l'interesse che pareva mostrare era puro espediente per sedare la sua stessa noia, per cercare una qualche nobilitazione personale nel mondo di un pensiero che non padroneggia perché in realtà non gli è mai appartenuto o per esercitare l'arte della menzogna.




 

lunedì 28 ottobre 2013

Tipi - 15 -

Alle volte sono anche madri, padri, figli, sorelle, fratelli.
Capaci di odiarti infinitamente  più del tuo peggior nemico.

Di te detestano la tua ineffabilità, nonché la tua anarchia di pensiero, che sono per forza di cose non traducibili in mancanza di empatia.
Ciò che è innominabile spaventa e paralizza, come il volto oscurato di una presenza incappucciata ed indistinguibile che avanza, nel peggiore degli incubi, in una notte brumosa sulla palude.

"Darai loro un nome", dixit: una sorta di esorcismo per le paure, un'illusione di controllo.

Se non possono amarti agevolmente ed in modo conforme alle loro schematizzazioni mentali, o se il tuo modo d'essere non sazia a sufficienza il loro smisurato ego e le loro superbe semplificazioni "di principio",  preferiscono perderti.
Anche se non lo sanno, temono l'intelligenza.
 

domenica 20 ottobre 2013

Se una domenica pomeriggio d'ottobre finisce che scleri...

La sola esperienza che saprebbe ristabilire una parvenza di armonia tra corpo e mente, adesso, sarebbe il raggiungimento della catarsi platonica.
Ciò, perché ho finito le aspirine, pur con la puntualissima emicrania del giorno festivo.
Ma.
 
Se è così che il Filosofo impara e s'avvezza a morire, è altrettanto vero che simile cammino deve essere da lui giudicato desiderabile, e per essere giudicato desiderabile deve procurare una qualche forma di  piacere, almeno fino al momento in cui egli è ancora appartenente alla specie umana.
Come si stia lassù, assisi su scranno o seggiola nell'Olimpo delle Idee, non è dato sapere ad un mortale, per ovvie ragioni,  talché qui la spinosa questione si fa irrilevante perché irrisolvibile.
Di conseguenza, ciò di cui ragionare rimane il tragitto.
 
Ebbene, ecco sfiorata la nota dolente: nell'impossibilità di percorrere alcuna via, perché stritolati nel presente per sofferta schiavitù - la moderna schiavitù economica che si differenzia dall'antica schiavitù economica solo perché ora si chiama diritto/dovere democratico d partecipazione al consorzio sociale -  ma  anche per una certa deprecabile - ovvero non conveniente - raffinatezza di gusti ed esigenze,  con chi e come condividere, amabilmente discorrendo e dialogando e comunque scambiando parti di sé, qualche tratto di strada?
 
*
Mai come ora ho accusato con tanta violenza il contraccolpo del vuoto.
Non c'è che vuoto sostanziale, tutto intorno ed ovunque: un vuoto in cui echeggiano parole in fondo prive di senso e piene invece di infinita volgarità e miseria.
Certo, ogni esperienza personale ha origini tutto sommato casuali: la più ferrea delle volontà non può modificare minimamente né le circostanze esterne né le altrui indoli. La sola cosa che un individuo può fare è sottrarsi alla menzogna, pagandone personalmente ogni conseguenza.
Così pago, fino ad esaurimento delle sostanze e delle energie.
L'intransigenza, l'impossibilità di addivenire ed accettare compromessi, sia nei rapporti personali che in quelli pubblici, con ogni probabilità provocheranno la mia catastrofe.
Ma non è anche questa, pur se nei piccoli ambiti di una vita non illustre,  fedeltà alle Idee?
 
 
*
 
 
 

giovedì 10 ottobre 2013

Parole spente -2-

Il virus dell'infelicità deve esserle stato inoculato in quel momento, nel bel mezzo dell'adolescenza, mentre.ascoltava Neil Young e la sua "Helpless", un 27 novembre dopo cena nella soffitta  sopra la  casa di  Anna - costei incommensurabilmente da lei lontana per via dell'appartenenza alla gretta borghesia mercantile così stridente ed iniqua rispetto alla sua, data la discendenza di stirpe proletaria, ma comunque da lei ugualmente amata come amica prediletta in forza di quella sua caparbia e fallace presunzione di saper cavar fuori la bellezza da ogni anima, fin  la più nera, manco fosse un dio -, di cui quest'ultima poteva usufruire come tana personalissima, underground - anzi overground -, ed in linea con la moda fricchettona del tempo.

Ascoltava, dunque, il cantautore canadese, pregevole esempio di sensibile sognatore sostanzialmente solitario - e perciò sotto quell'aspetto a lei affine anche allora-  e, per via di quel comune fenomeno che ci fa credere che il nostro sentire sia pure il sentire degli altri (e ce lo fa credere senza che ce ne sorga per tempo il dubbio, in un'apoteosi di ottusità ed egotismo), si convinse che certamente c'erano molte anime belle - come quella che lei immaginava insediata in Neil Young - disseminate nel mondo e probabilmente sarebbe stato bastevole lucidare le antennine dell'intuito per incontrarle e trarne piacere intellettuale e morale e chissà poi quanta metafisica ricchezza.

Poi, data l'intensità di simile desiderio e l'inesperienza dei diciassette anni, le pareva di vederne dappertutto e ad ogni pié sospinto.
Quante smaglianti anime intorno!
Lei non esitava neppure un istante, in ogni occasione, ad offrire loro senza riserve la sua.
...
... e con quale terrificante velocità si spegneva, al primo accenno di conoscenza, la loro luce...
Stare ad osservare il baluginìo, sempre più flebile prima dello spegnimento e della totale oscurità, della sedicente anima bella, la rese, da allora, irrimediabilmente infelice.

Veder morire le speranze è sempre doloroso, in qualsiasi caso, sia quando la speranza era nobile, sia quando la stessa era sordida fin nelle intenzioni più occulte. Non nutriva alcun dubbio sul fatto che anche il più perverso degli umani abbia la capacità di soffrire a seguito di sue proprie frustrazioni, magari abominevoli.
Soffrire, in sé e per sé, non basta per nobilitare. Lei lo sapeva perfettamente.
L'ingenuità può, però, convivere agevolmente con l'onestà di pensiero, e l'onestà intellettuale impone presto di rompere gli incanti.

"L’anima bella è quella capace di elevarsi al di sopra del mondo sensibile; l’anima brutta, invece, è quella che vive seguendo le passioni: vittima e nello stesso tempo responsabile di una scelta che le è innaturale."
 Plotino Enneadi, I, 6, 5

Orbene, le sue frequentazioni, le vaghe conoscenze, le amicizie, ogni necessaria esperienza terrestre, la conducevano, puntualmente, alla triste constatazione che siffatte anime erano votate irrimediabilmente all'estinzione, o talmente lontane dalla probabilità di incontrarsi da poter ormai annoverare tra le parole spente, morte per sempre, le parole che le evocavano.

*
 
Sarebbe coerente se nessuno esternasse dialetticamente più ammirazione o simpatia per ciò che vede in un altro ma non potrà o non vorrà mai eguagliare od imitare.
Sarebbe anche congruo che il cristiano fosse umile e sapesse amare completamente il suo prossimo, il marxista, parimenti al cristiano,  privo di proprietà immobiliari e mobiliari,  l'amico totalmente empatizzante, il poeta catturato dal sublime.
Ed invece - ma tu pensa! - no.
Per inciso, solo l'anima bella comprenderà il nesso della chiusa straniante.
 
 *

 

martedì 1 ottobre 2013

Parole spente -1-

Fu un processo un po' subdolo, ma inesorabile.
Piano piano, senza alcuna teatralità né rammarico, una dopo l'altra, smarrì il suo precedente fideismo delle parole. Alcune, in più, caddero in disuso impercettibilmente, quasi a sua insaputa, in conseguenza di quel suo particolare senso di pudore che le aveva sempre impedito una troppa disinvolta tolleranza nell'osservazione del loro uso.
 
E' un evento importante, di indiscutibile gravità  e dalle conseguenze tragicamente definitive. Se ne rendeva perfettamente conto, ma la cosa costituiva il logico culmine di una serie di accadimenti precedenti che avevano trovato contraccolpo esattamente nel linguaggio (il suo), in quanto unica via di sfogo ad un'infelicità conseguente e  che però, rivelatasi inefficace ed illusoria - anzi imperfetta -, ad altro non poteva approdare che all'estinzione. 
Ora rammentava anche che prima del definitivo distacco, invero, ne aveva a lungo avvertito in modo vago e nebuloso l'inesorabile approssimarsi in  stonature ed eco, sia nelle parole date che in quelle ricevute di rimbalzo: di fatto le sentiva sempre più insufficienti a descrivere congruamente i pensieri più profondi, soprattutto sinceri ma in evoluzione,  e poi perché è così che va quasi sempre: tendono a rincorrersi e ad imitarsi, come bimbetti che giocano scalmanati gridando come ossessi sul praticello di casa durante il libero tempo in cui il sole arride al mondo, prima che le nuvole lo oscurino.
Alla fine di tanto dire, non si sono mai comprese vicendevolmente le rispettive tensioni passionali ed  argomentazioni; i messaggi rimangono parziali, i dubbi interpretativi feroci, il disagio di aver impegnato energie in imprese inutili si fa mortificante.

Lei aveva sempre immaginato che le parole, tra persone degne - ovvero che lei immaginava degne, ma essendo sostanzialmente una sognatrice assorta non ci aveva ancora azzeccato mai  completamente nel giudizio -, nelle conversazioni più intime veicolassero frammenti d'anima, significati e messaggi, trasportassero e fortificassero sentimenti di stima e d'affetto, permettessero, ai più alti livelli, lo scambio di autentica compassione, oltreché consentire una certa crescita intellettuale ed umana, ma da un po' si stava rendendo conto che così come nessuno può sognare il tuo sogno, nessuno può, neppure volendo, attribuire loro lo stesso esatto significato con cui tu le hai proferite. Nessuno che non ti intuisca, ossia,  che non ti ami.
Se il suo bisogno era esternare con precisione i suoi crudeli dubbi e la sua alta muraglia di malinconia, nell'umana ricerca di tepore e affinità, presa da una nostalgia ancestrale di sentimenti,  non era comunicandolo a quegli altri che semplicemente dichiaravano  di comprenderlo che l'avrebbe mai soddisfatto.

Diffidare, diffidare costantemente delle ingannevoli ed autoreferenziali dichiarazioni umane. La più alta cifra degli uomini è il narcisismo, questo è chiaro, ed i narcisisti meglio riusciti sono coloro che lo ritengono un inevitabile dettaglio, un alibi da nulla, un difettuccio veniale.

Lei aveva imparato un certo distacco, al fine di tutelare sé stessa dalle conseguenze nefaste che la sua ipersensibilità raccoglieva dalle parole degli altri: d'altronde, se il dubbio scava,  tormenta e rende insonni, la fiducia tradita, d'altro canto, può destrutturare od uccidere. 

La prima che smarrì fu "amicizia", la sua preferita. Ne aveva disquisito con questi e quelli e sempre il fitto discorrerne aveva condotto in abissi di caos concettuali inconcludenti.
Per quanto lei si fosse sforzata, in ciascuna occasione, di raccontarne il suo sentore e la sua definizione, mai aveva trovato autentica condivisione nel suo interlocutore: è evidente che lì il linguaggio falliva, e non aveva alcuna importanza comprendere per colpa di chi od a causa di che cosa.
Ciò che rimaneva era il suo sguardo lucido e fisso sulla realtà dei fatti mai sperimentata: l'amico è quello che ti si dà, semplicemente, che arriva non perché lo chiami, ma perché gli manca la frequentazione con la tua anima,  anche nel silenzio e forse preferibilmente in quello, perché, senza bisogno d'altro aggiungere e letterariamente impreziosire, l'amicizia è uno dei massimi Beni ed il suo scambio conduce a grande piacere, senza intellettualismi e senza minimo sforzo.
Tra i mille tormenti pratici della sua esistenza - ché esistono, di fatto, ancora persone tormentate davvero dalle necessità di sopravvivenza di corpo e di dignità, anche se il libero pensiero comune borghese ne ha perso ogni consapevolezza reale - l'amica o l'amico, per lei, avrebbero costituito comunque la sola anelata vera ricchezza.

Quel che era successo, però, trascendeva certi significati e conseguenze: la verità è che l'amicizia non interessava più nessuno, perché non spendibile, non utilizzabile, inerte come le Idee vituperate dal tempo e dai nuovi costumi,  e che "grande piacere" era soltanto quello suo, peraltro solo vagheggiato. Che  donna noiosa ed ostinata, arcaico individuo fedele a ricordi di sogni stantii della sua giovinezza, irrimediabilmente perduti e da tutti dimenticati!

La seconda, più volgare e perciò dalla maggioranza nell'uso inflazionata, era "amore", nella sua versione classica.
Quella aveva ormai la proprietà di  rivoltarle lo stomaco, tanto la sentiva usata a sproposito ed in modo davvero irriverente rispetto alla nobiltà originaria del concetto che avrebbe dovuto esprimere.
"Amore, amore, amore", nelle canzonette, nelle poesie, nelle odi Ma il termine era usato a sproposito. "Ormone, ormone, ormone", oppure "Possesso, Sicurezza, Status",  dovevano cantare e declamare, che diamine! Onestà e precisione, per Dio! 
La prosopopea dell'amore, così diffusa e mortificante, venne da lei, stizzita,  definitivamente estromessa  anche dal suo vocabolario.

Seguirono, a ruota, "Arte"; "Bellezza"; "Cultura";  "Comunista"; "Pensiero Comune"; "Senso comune"; "Democrazia"; "Emozioni"; "Felicità"; "Giustizia"; "Hegeliano"; "Intellettuale"; "Karma",; "Liberale"; "Maternità"; "Normale"; "Onestà"; "Papa"; "Quorum"; "Rivoluzione"; "Sesso"; "Top"; "Utopia"; "Valori" e molte, molte altre, colpevoli o di tradire o di prestarsi a permettere di tradire il loro vero significato attraverso l'accondiscendenza nelle interpretazioni ipocrite, oppure anche di evocarle, amplificati, antichi e presenti dolori .


 

lunedì 16 settembre 2013

Nottetempo -6- (studi di pensieri da ri-pensare)

Decisamente sempre più spesso mi faccio pena, tanto mi scopro interiormente ridicola, arroccata disperatamente come mi tocca essere sugli ultimi miei personali ideali, ed anche sui miei stravaganti ed incorruttibili gusti che non posso né riesco condividere.
Forse non vorrei neppure se potessi, sospetto talvolta.

Non sono, neppure lontanamente, una vittima di qualcosa o qualcuno: la colpa e la  condanna stanno nella mia incapacità di trovare piacere in me e per me, ed il dolore d'esistere prevarica la gioia che pur potrei afferrare - perché potenziale in chi respira, credo di dedurre -, solo a causa della necessaria constatazione che senza scambio con  gli altri umani, che però d'altro canto recano sempre delusione od orrore, non si può vivere.

Tutto sommato, tale mio stato è al contempo trappola e rifugio.

La verità è che io non voglio essere come loro, i felici.
Innumerevoli volte mi hanno fatto intendere d'esserne maestri, di maneggiarla con grande abilità, grazie alla loro sedicente saggezza e temperanza.
La loro "felicità", invece, è sordida e bassa, e mi ripugna, perché è mendace e frivola: volgare imitazione materialistica di una conquista che dovrebbe essere esclusivo appannaggio della mente.
E' fatta di soddisfazioni miserabili, la cui osservazione mi deprime.
Spesso se ne vantano, decantando l'arte dell'accontentarsi, ma la semplicità che implicitamente pretendono di evocare non ha nulla a che spartire con le loro scelte d'ignavia.
E' soprattutto, una felicità comoda, di facciata, una coreografia issata su di un palco comunque solido, che non li faccia tremare per l'apprensione di ritrovarsi senza un tetto, senza complici di vita, senza companatico, e pure senza il pane. Dalla stabile piattaforma delle sicurezze carnali disquisiscono di Dio e dei suoi ministri, di giustizia ed ingiustizia, di Bene e di Male, di politica economica, di paesaggio e d'arte, di vizi e di virtù umane, senza riuscire ad amare davvero nessuno se non sé stessi, beandosi dell'eco della propria voce e senza poter mai vedere fino in fondo il cuore sanguinante dell'altro.

Questo è il loro mondo, un mondo che prova noia e sconcerto di fronte alla purezza, irride la coerenza, denigra la differenza.

Le moltitudini, d'altronde, si son sempre pasciute, in varie forme, di illusioni. A me basterebbe che costoro non avanzassero anche la pretesa d'essere fra i giusti, di conoscere il segreto del corretto vivere, tanto per tacitarsi la coscienza ed archiviare definitivamente i loro stessi, a loro indecifrabili, autentici impulsi.

 
*
 
 
A me fa un po' schifo, ormai,  tutto l'impianto della comunicazione umana, lo ammetto. Basta che si gratti appena la superficie di qualsiasi affermazione, dichiarazione, proclama, per scoprirne il raggiro e la meschinità, oppure le implicazioni utilitaristiche, oppure le contraddizioni, oppure un sostanziale niente.
E' per questo che mi convinco molto di più di ben altri messaggi, e non seguo talk-show, e diffido dei giornalisti, dei politici, dei profeti, dei poeti, e comprendo perfettamente il mio gatto e la mia cagnetta.
 
*


 
 

mercoledì 4 settembre 2013

Nottetempo -5- Delle imponderabili esigenze frustrate di comunione con l'altro.

E' chiaramente appurato che solo una straordinaria fortuita combinazione cosmica saprebbe sedare la sempre riconfermata consapevolezza che mantenere l'integrità della propria indole, aborrendo i compromessi, condanna ad un insanabile isolamento morale.
 
Sempre, la semplice condivisione della vita quotidiana con un mio simile, mi ha costretta alla constatazione che essa funziona in modo accettabile solo a patto di infliggere o subire piccoli o grandi atti d'oppressione, cui seguono reazioni contrarie ed automatiche, spesso vili, come il ricorso alla menzogna sistematica.
Io non mento.
Solitamente il più debole cerca di spegnere il sacro fuoco del più forte, compiendo così l'errore fatale.
Alla fine entrambi franano in un abisso, prima di assurdità, poi di mortificante tristezza: gli ignavi restano, i giusti fuggono.
 
"Ci penso. Non ho mai programmato d'amare, ma mi è successo, mio malgrado, come succede a molti e reiteratamente.
Il resto è stato una sequenza di effetti collaterali, pesantemente viziati da astrusi dettami dell'insinuante ed invasivo pensiero comune.
Alcuni sono considerati piacevoli, altri fondamentali alla fortificazione dell'umano consorzio.
Io ho una certa tendenza innata all'anarchia intellettuale e pacifica.
Poi, quasi sempre, a causa dei succitati vizi o per processo naturale, l'amore finisce.
Qualche volta era solo sogno, infatuazione, ricordo di leggenda e poesia, fantasia liberatrice.
Ogni cosa che scegliamo, d'altronde, non è che conseguenza di desideri, non sempre autenticamente nostri.
Può subentrare il guaio quando, aperti gli occhi, questi rimangono allucinati dalla visione di un'immensa catasta di frustrazioni ed amarezza, prima fra tutte, quella del fallimento della comunicazione.
... 
 
Perciò - ora è chiaro - si può amare soltanto un uguale, un pari nell'anima. Se non s'incontra, la scelta più onesta è la linda solitudine."
 
 
 

sabato 17 agosto 2013

Qualche cane amico, un paio di elefantini e Jonathan il gabbiano.

Mai stata più chiara di così l'oscurità in cui versa il mondo.

Ho immenso disgusto ed immensa pietà per i nostri difetti umani.
 
Quale gigantesco schifo mi son procurata di raccogliere. E poi, perché? Per l'ingenuità di amare - idiota -, senza neppure la verifica dell'oggetto. Come se l'umanità meritasse amore.
Idiota.
 
 
Nulla sarebbe stato più opportuno che non nascere affatto, se poi l'approdo è questa nausea senza riscatto.
Eppure, se Sileno aveva indubbiamente e pienamente ragione a proclamarlo nella sua privilegiata e fatale posizione di ubriacone immortale che la sa indefettibilmente lunga, m'accorgo che sarebbe bastato, per essere felice, impedire semplicemente che l'intelligenza varcasse una data soglia e s'accontentasse magari d'essere soltanto supporto al corpo, già di per sé abbastanza - anzi indicibilmente -, meraviglioso meccanismo atto a cogliere la Bellezza.

Immaginare è l'inappellabile condanna al dolore, dato che innesca quella spirale di desideri che, soddisfatti o non soddisfatti, ne provocano sempre di nuovi.
 
*
 
Continuo infatti ad immaginare le spiagge dei mondi senza fine del buon Hermann, ma praticamente deserte, fatta eccezione per qualche amico cane, un paio di elefantini, Jonathan il gabbiano: sarebbero bellissime e riposanti, accarezzate da leggero vento - un vento che scolpisce sempre nuove dune, fantasmagoriche ed imprevedibili - , ed il vento recherebbe i sussurri di tutte le parole non ancora udite, ed io potrei, senza più diffidenza e dubbio, finalmente saperle vere.
E' lo scontro con ogni singolo universo che l'altro porta in sé che devasta la primigenia purezza di ogni anima, profanandola irrimediabilmente, ed ammalandola.
Se ci fosse stato un Dio creatore, egli avrebbe fallito clamorosamente le sue stesse intenzioni: non già un atto d'amore, la sua opera, ma bensì il desiderio d'essere amato da figli votati comunque all'infelicità causata dall' oggettiva impossibilità di amare.

Alla fine, sarebbe forse il caso di decidere.
Che fare, in sintesi, per interrompere il meccanismo rotto di un'esistenza che gira a vuoto e mentre gira scricchiola orribilmente minacciando ad ogni istante di andare in mille pezzi?
Nulla di risolutivo, purtroppo.
La sentenza, per alcuni di noi, è pronunciata fin dai tempi prenatali : stranieri in terre straniere, per sempre.
Per sempre!
Son sempre stata straniera, che pena. Straniera nel sociale, straniera fin nel privato. Straniera con gli amici, straniera con gli amanti, straniera con i compagni di lotte politiche, straniera fra le mie congeneri, straniera con mio figlio, e con mio padre e mia madre.
(Volevi l'elettività? Eccotela: non l'hai dovuta nemmeno cercare, stava già inclusa nel prezzo del biglietto assegnato dalla Fortuna che t'ha permesso di salire su questa giostra)
.
Le determinazioni, da viva, sono soltanto due: concentrarsi su  qualche piccola cosa, sui particolari, sui dettagli, facendone fulcro di forza e resistenza, oppure darsi l'ennesimo, rischioso, "grande progetto": rimescolare ancora tutte le carte, provare un'altra mano ancora.
Di nuovo, rispetto al passato, c'è il corpo che soffre di più di nuovi dolori, e che talvolta ostacola pensiero e volontà; che contrasta, con la sua cruda e solida veracità inoppugnabile, la fantasia e la progettualità.
Nuova vita, con la fedele emicrania al mio prode fianco: donzella Kisciottesca, con stendardo di malinconia ed aspirina.
Della realtà delle cose e dei fatti e delle persone, nella loro essenziale verità e nella tangibilità delle loro espressioni/intenzioni e poi conseguenti atti, continuerò a patire con insanabile nostalgia di qualcosa che sia ogni volta irrimediabilmente perduto perché passibile di miglioria e perfino, talvolta, soave bellezza, e rinnoverò, ancora ed ancora, la nota sensazione di noia e delusione.

Dicono si tratti di eccesso di pretese.
Può darsi, secondo la loro logica dell'utile.
Io ho stretto un patto di sangue con la mia ingombrante coscienza: che provino a convincere lei, se ne sono capaci.


 

sabato 10 agosto 2013

Nottetempo -4-

Lo ricordo, se mi ci sforzo un po': mi ricordo come ci si sentisse ad avere speranze - speranze abbastanza caparbie da sostenere i cambiamenti -, ma, soprattutto, ricordo come fosse leggermente esaltante e piacevolmente sorprendente incorrere nella memoria di alcune emozioni intense, per via della loro intrinseca qualità di rivelazione di un senso complessivo del vissuto.

E' qualcosa che appartiene ora al passato. Il passato della crisalide che si credeva in buonafede d'essere già farfalla.
Eppure, è esattamente adesso, in quest'arida landa di disillusione e tedio, in questo cimitero di sogni giovanili e patetici velleitarismi, molti dei quali più tronfi che non, che mi pare possibile osare una sensazione di avvicinamento a un po' di verità, fosse pure dall'interno di questo sempiterno bozzolo sospeso ed oscillante al vento dei dubbi.

*

C'è una grande setta, una setta di planetario potere, che illude da secoli le ingenue crisalidi.
C'è un grande assembramento di crisalidi della specie Vulgare Evidenthia sotto il cielo, pronte a spiegare le loro maturande ali al sole del Benpensantismo e del Compromesso Socialmente Accettabile.
Per loro quasi ogni concetto genera dicotomia, così che amore va con coppia ed amplesso, politica con denaro, amicizia con risate ed allegria, arte con elettività, cultura con consapevolezza, saggezza con noiosa sicumera, sincerità con sguaiatezza, malinconia con tristezza.
Ma per favore.
Io no.
Io che ho fallito in tutto, secondo il gran consesso del benvivere e benpensare, non mi fingerò più la farfalla che in fondo non desideravo affatto di diventare.

 
*
 

 

venerdì 26 luglio 2013

Nottetempo -3-

- Riecheggiano nella scatola cranica i milioni di "Mi dispiace" con cui gli Indifferenti-in-realtà, cercano assoluzione alla loro stessa vacuità sentimentale ed alla loro stessa costipazione di egoismo dei quali l'ormai esausto sfilaccio di onestà intellettuale che ancora in sé ospitano mantiene morente memoria.
Fa più male questo loro escamotage equilibrista d'ipocrisia, che la sincera ed oggettiva noncuranza senza parole.
 
- I rispettivi drammi personali rimbalzano sui muri di gomma degli egoteismi metropolitani. Perfino l'odio sarebbe più consolante e vivificante.
 
- Inevitabile vivere senza riversare su oggetti amore od amicizia, e sperare di venirne conseguentemente oggettivato da qualcuno. Per somma ironia, l'amore muore sempre e l'amicizia risiede nell'olimpo delle idee.
 
 
 
 

lunedì 15 luglio 2013

Le altre morti


Ho smesso ormai da tanto tempo di fissare le foto  ed aspettare che mi sorridano, o mi parlino. 

Dopo la morte di mio padre – ed ormai son trascorsi vent’anni - ne  avevo consumato con gli occhi  l’immagine, con l’assoluta certezza di trasfondere così  interi pezzi della mia anima – che immaginavo gassosa e di forma sinusoidale -, straziata dalla perdita, in preda alla frustrazione dell’irreparabile assenza.

Aspettavo ed aspettavo un cenno di presenza, una qualsiasi risposta di rimando a quello sforzo di volontà immane e caparbio.

Le pagine del mio grosso quaderno di pergamena, spesse e dai bordi frastagliati, avevano accolto migliaia di parole-gancio, con le quali ero pateticamente decisa a  trattenerlo a forza  nel mondo dei vivi.

E’ amaro, sempre, toccare con mano l’irrilevanza sostanziale della nostra volontà di incidere e stravolgere le realtà a noi superiori.

 

Se l’esperienza insegna e costringe a modificare i comportamenti, l’indole rimane inalterata: alla minima distrazione si ricompone e si manifesta nelle sue originarie caratteristiche.

 

Così, ogni qualvolta qualcuno che amo  - o per me significativo - muore, io, d’istinto, ne ricerco qualche effigie da scrutare (stavolta senza confessarmelo apertamente)  nell’illusoria reiterata speranza di non permettere che il filo invisibile del pensiero e della memoria lo distacchino irrimediabilmente dalla mia vita.

 

Sempre subentra il rimpianto di non aver detto o fatto tutto ciò che avrei potuto, o dovuto, prima.

 

Non c’è altro modo di sconfiggere l’effimero se non trovando il coraggio di amare, di dire, di essere per tempo quel che si deve, in quel preciso e fuggevole momento.

Persi nelle infinite nostre necessità di trascendenza viviamo sorvolando con  ali d’ignavia la nostra stessa vita.

giovedì 11 luglio 2013

Serendipity

Il cinico:
Se rapportarsi ai propri simili, dato per assunto che non è possibile stare nel mondo organizzato evitandolo, significa trangugiare massicce dosi d'amarezza e di tedio mortale, utile sarebbe limitarsi ad approcci sociali esclusivamente omeopatici.

Lo stoico:
Purtuttavia, ciò non solleverà in alcun modo dal dolore di fondo del vivere, che rimane comunque macigno nella mente e nel cuore. Fino all'ultimo. S'ha da diventarne avvezzi ed attribuirgli la virtù, andandone fieri. Ciò nutrirà il Dio che pensiamo abiti in noi.

La Filosofia ha tratti spesso a dir poco buffoneschi.


- E che cosa, poi, arreca tanto dolore metafisico, in sintesi?
- Sapere quanto sia inevitabile ritrovarsi a contemplare puntualmente, dopo ciascuna disillusione, la propria solitudine, la propria inettitudine a comunicare fino in fondo quello che si è, nel mentre, come in uno stillicidio, si cerca di decodificare la propria stessa consapevolezza d'essere.
- Ma siamo tutti soli, tutti! TUTTI!
- Banale, sì. Solo che io non posso tollerare di fingere di non esserlo, come vedo fare a tanti, presi come sono ad illudersi che le cose e le situazioni su cui hanno abbarbicato le loro sicurezze ed i loro pretesti di esistenza siano solidi puntelli a difesa della vertigine del dubbio di non stare esattamente vivendo.

E rimango perplessa dalla mia stessa bassezza morale, che mi insinua una serpeggiante punta d'invidia per la loro capacità di mettere ordine nel caos della coscienza.

Certo, loro han ragione ed io rimango irrisolta,: un pezzo sfornato con ammaccatura all'origine. Ostinatamente predestinata all'aleatorietà ed alla ricerca di soddisfacenti risposte.
Il troppo desiderio di conoscenza è un vizio grave, così come la piccata puntualizzazione dei dettagli, nell'oscena ricerca di una smagliante bellezza, della beatitudine.
Oh! Serendipity! Da che ho smesso di crederci, la morte si fa più sfacciata,...



sabato 29 giugno 2013

Tipi -13-

In sunto, ciò che mi lascia stupefatta, è la loro indiscutibile abilità a comportarsi come se quel dato comportamento fosse non solo naturale, ma pure congruo.

Loro sanno, perfettamente, che stare al mondo significa impelagarsi nelle sue regole di massima, aderendo a quel che pare il generale buonsenso e le norme della loro comunità,  e che chi non sa farlo o non può - a meno che non sia icona pubblicitaria di un anticonformismo ostentato - soccomberà presto e senz'ombra di dubbio. Ciò basta a rendere sospetta  la loro stessa sedicente "scelta" di appartenenza e di adesione. Abdicare ai propri bisogni più originalmente umani in nome dell'ordine del consorzio di appartenenza e delle comodità conseguenti a me pare alto tradimento verso quella porzione di libertà (d'amare, d'esprimere, di dissentire, d'essere) che non ledendo in alcun modo quella altrui resta dovere verso sé stessi.

In fondo sono molto democratici: rispettano la dittatura delle maggioranze. Democrazia, infatti, non ha attinenza con la libertà: confonderle assimilandole è davvero superficiale.

Quale contrappeso, costoro ingoiano e seppelliscono i loro più sotterranei e sinceri impulsi passionali, sentimentali, poetici, fantastici, incorrendo loro malgrado nella finzione o nella rinuncia.

Ci vuole un fisico bestiale a fingere per tutta la vita, perché l'eco delle emozioni perdute - che, chissà come, pur se aborrite o mai sperimentate ciascuno pare ugualmente conoscere, come fossero un patrimonio comune di memoria universale - affiora di notte, nei sogni, o in certi fulminei istanti, suggeriti dal crepuscolo, dall'aurora, dall'osservazione di un qualsiasi dettaglio di una qualsiasi cosa od accadimento. A patto che l'ottusità (male degenerativo progressivo) non abbia già completato lo sterminio dei neuroni della meraviglia e della conoscenza.






domenica 23 giugno 2013

Ordinaria infestante volgarità.

 
La cosa davvero necessaria, ora ed ormai, per me, è questa strenua fuga dalla volgarità.
La volgarità è fatale all'anima ipersensibile perché schiacciante, permanente; non solo molesta ma tediosa, non solo offensiva ma umiliante.

Pervasiva, serpeggiante e dilagante come magma silenzioso e letale nella notte della montagna che dorme pur borbottando nelle viscere, la trovo ovunque; ovunque subirla mi intossica.
Il giorno che incontrerò un umano libero da siffatto morbo sarò felice.
Ritengo, però, che alimentare simile illusione sarebbe tutt'altro che saggio.
Inoltre, pure la stragrande maggioranza delle illusioni è essa stessa volgare, alla fine godereccia, semplicemente edonistica.


C'entra poco con il linguaggio; spesso, anzi, attraverso il linguaggio si maschera, pensando di confondere gli esteti e gli ingenui.

Ed esattamente, che cos'è?
Oggi è la cifra del mondo, forse pure più di quanto lo sia stata sempre, e ciò che provoca poi è l'infestazione del brutto, ovunque, fuori e dentro di noi.
La volgarità è la corruzione, profonda, del pensiero, e trova terreno particolarmente fertile - è osceno parassita - nei moderni sofisti da quattro soldi, queste mezze calzette un po' acculturate che proclamano verità e giudizi e talvolta spandono supponenza sarcastica sulle stesse cose del mondo di cui sono insaziabili fruitori.

Eppure, quando penso alla sua liberatoria assenza, non immagino nulla di divino e sublime: continuo ad anelare a qualcosa che rimanga esclusivo appannaggio dell'umano e nell'umano realizzabile.
So che la perfezione non ci compete, ma la perfettibilità etica, invece, è doverosa.

Probabilmente, è una questione di buon gusto; un buon gusto, però, sostanziale di forma e concetti  che pretenderebbe un'universalità impossibile.

In particolare, la rifuggo nell'amicizia, nei rapporti sociali, in amore.
In particolare, non ho mai riscontrato esigenza affine in amico, conoscente  amante.
In conseguenza, da ciò ne derivano amicizie, conoscenze, amori votati all'estinzione: io non so sopportare, come fanno altri, la commistione con il brutto, che in loro suscita un morboso interesse, fingendo una tolleranza di cui non sono stata mai dotata.


*
 
Prima di gettare definitivamente la spugna ed abbandonare il ring c'è chi prova pervicacemente a combattere nonostante sia consapevole dell'esito a lui comunque sfavorevole: le anime coraggiose si accompagnano sempre alla malinconia e sono avvezze all'idea della morte.
Ho sempre ammirato quella particolare forma di coraggio di cui pochi s'interessano e che consiste nel non essere "nessuno", a nessun livello ed in nessun ambito, e purtuttavia seguire con scrupolo e riguardo estremo verso sé stessi ciò che all'indole par bello e giusto.
Ma il brutto non ho mai tentato di avversarlo e modificarlo: lo so invincibile, e ciò mi procura un'inconsolabile e perenne pena.

Ho avuto ed ho contatti con persone, sedicenti stimabili - secondo i miei canoni -, che prendono e lasciano la mia attitudine all'accoglienza morale secondo i loro metafisici ed altalenanti pruriti: sono volgari.
Ho avuto amori iniziati con premesse di magnanimità e superiore intesa, capaci di nutrire vicendevolmente sensi e "spirito", rotolati poi giù lungo la china dell'abitudine, del formalismo, e della pigrizia: volgari.
Sono angustiata da amicizie che concepiscono come normale un solo flusso, in andata, verso il loro indirizzo, di attenzioni e partecipazione emotiva e fattiva alla loro vita, barricati dietro all'assunto della loro debolezza e della mia forza, dati per inoppugnabili e certi: volgari.
I politici, gli antipolitici, gli osservatori politici, i conduttori televisivi, i giornalisti, il popolino che partecipa con le misere ramazze in mano e lo stomaco borborigmante ai loro lauti pasti di parole volgari, i satirici pagati da qualcuno di quel blocco, i blogger  narcisisti pseudo cazzuti, tutti quelli che sanno da che parte stare e ci stanno senza provare disagio e dubbio: volgari. Infinitamente.
Quelli che non trovano ridicolo credere in Dio, quelli che pensano che sia oggetto di riflessione il loro credere in Dio fregandosene degli uomini in sofferenza e difficoltà: volgari.
Quale strepito...

O cielo! Quasi tutto, allora; quasi tutto: volgare.

 
 



sabato 1 giugno 2013

Nottetempo -2- Ci vorrebbero un po' d'ordine e pulizia.

Per quanto mi strazi confessarlo - ché ciò corrisponde al rigirare nella piaga l'eterna lama acuminata della delusione cocente che solo il nostro simile sa magistralmente arrecarci -, temo di aver incontrato, nella mia esistenza, quasi esclusivamente individui deficienti dal punto di vista relazionale.
(Non escludo che ciò sia diretta conseguenza di un'oggettiva rarefazione nelle frequentazioni mondane ma il mio saggio pessimismo mi suggerisce che, semmai, tra le moltitudini, i fenomeni osservati in scala ridotta aumentano in  modo esponenziale).
 
Chi si trova in quella condizione difetta - naturalmente - di qualche cosa, più o meno essenziale alla serena ed appagante conduzione di un rapporto umano, sia di semplice socialità, sia d'amicizia, sia d'amore convenzionalmente inteso o segretamente custodito nell'anima.
 
L'elemento la cui assenza grava più di ogni altro, è la voglia e la capacità di regolare il  linguaggio su di una sintonia  ed un vocabolario condivisi.
Non so descrivere quanto io mi senta ormai disgustata, ferita ed orribilmente annoiata dal suo cattivo e avarissimo uso, perché, di certo, se c'è una cosa di cui sento prepotente bisogno è l'incontro in senso dialettico con le persone, in un tentativo di accoglienza e riconoscimento reciproci semplicemente umani ma sostanziali, ricchi di contenuto e privi di fraintendimenti, ma il livello massimo  di cui ormai l'individuo è capace (o disposto ad accordare, o di cui si rammenta i termini) rimane confinato a gelidi intellettualismi o  mortificanti formalismi spesso mendaci e strumentali all'ottenimento di qualcosa e quasi sempre terribilmente mediocri.

Cristo, se è difficile esprimere qualcosa senza poter dire tutto!
"Morenismi", li chiama un mio amico.
Per forza. Sono gli scavi  del mio sottosuolo, talmente veri ed assurdi da non poter essere detti che in codice criptato, ovvero nel linguaggio intuitivo condiviso proprio di un'eventuale affinità elettiva.
Improbabile.

*
L'esistenza sta diventando un vero tedio, a causa di questo, e temo che la sola cosa da fare sia digerirne l'aspra verità con il massimo del decoro personale, finché si regge.

Come scrisse Hemingway? "Basterebbero un po' d'ordine e pulizia", pur nella consapevolezza che comunque tutto questo rimane niente, e niente, e niente.

(Non è stupefacente, per esempio, l'espediente di chi ha la fede, di chi, più o meno criticamente, decide di aderire ad una religione? Credere in Dio, cioè in qualcosa di invisibile ed intangibile, che non ti parla, che è massimamente indifferente ai tuoi tormenti - e che nelle gioie ti scordi ovviamente di ringraziare -, che a dispetto della sua sedicente onnipotenza non fa comunque nulla perché, pur se suo prodotto, sei uscito difettato dalla macchina e meriti una vita da incubo, anche se hai solo tre anni e sei nato casualmente in un Paese del Terzo Mondo, oppure sulle spiagge di un oceano che di tanto in tanto spazza via te e tutti i tuoi ammennicoli e stracci con uno tsunami più veloce di una saetta. Ma che vuoi farci: basta l'idea di "ordine e pulizia" che il Dio buono ripristinerà, prima o poi, per tacitare le angosce.)

Ma io non la penso affatto così: i niente sono di tante specie e fogge; rimane la minima libertà di scegliere il più adatto a sé stessi, il meno bugiardo, il più coerente.
E' orribile avere la capacità di scorgerlo e non poterlo afferrare per ragioni estranee alle proprie forze ed alla propria volontà.
Essere schiavi per indigenza, è orribile.
Essere schiavi di fatto e liberi dentro.
Sapersi vivi e vivere da morti.

E non poter far intendere a nessuno quanto sia grande simile ingiustizia.
 
 

sabato 18 maggio 2013

Nottetempo (fuori dalle Malebolge)

*
Se avesse un fondato senso dirlo.
Se ne avesse anche il pensarlo.
Se davvero fosse soltanto il pensiero della morte e del morire ad alimentare l'angoscia in vita.
Se non fosse ugualmente e tanto straziante osservare  la bellezza del vitello svezzato dalla sua madre naturale e sapere che l'uno e l'altra diventeranno presto nostro nutrimento.
Se non fossimo così inchiodati dalle nostre contraddizioni, più o meno necessarie, più o meno crudeli, od ipocrite, solo per sopravviverci.
("Ipocrisia", lemma stravolto nell'opinione comune, in realtà, come indicasse soltanto qualcosa di deprecabile e squallido e non già, invece, anche la prospettiva di chi guarda da sotto)
Se esistesse il modo oggettivo di individuare una misura di giusto vivere , liberi da una coscienza ormai guastata, troppo permeabile, ipersensibile, ferita, nichilista o decadente: la coscienza che ci rende perennemente agonizzanti nell'anima, viandanti nel niente armati di lanterna spenta, irrimediabilmente parziali nei giudizi e nelle osservazioni, insufficienti.
Ma non si può, ci vorrebbero grandezza assoluta, magnanimità totale, umiltà personale e, sopra ogni cosa, ancora voglia di provare ad amare.
Se non fosse sospetto iniziare un tentativo di ordine nel proprio pensiero iniziando con il "se".
Se esistesse la possibilità di scambiare parole senza l'assoluta certezza che qualsiasi interlocutore le piegherà alla sua versione, per tornaconto di semplicità.

In tali casi, sarei felice.
 
*
 
Sono una schiava indipendente. Voglio, devo, sognare. Il bisogno è impellente, tanto quanto quello d'aria. E' essenziale, vitale. Mi reputo illuminata per averne scrutato la terribile verità.
Vivere, e purtuttavia essere così terribilmente ed inoppugnabilmente consapevoli di non poter non sognare, è nel contempo atroce e folle.
Vero in modo straziante.
Ancor più vero, più atrocemente vero, è che nel sogno non può entrarci nessuno; non si vuole.
L'altro è portatore di mediazione, d'insufficienza, di limite, di banalità.
Il desiderio più puro si perfeziona soltanto a patto  che lo sferzi senza pietà il più gelido vento dell'esilio.
 
 
*
 
(Ciao ai lettori amici, che amo.)
 
*
 
 


venerdì 26 aprile 2013

Leggerezza, pesante impresa.

Forse la lucidità di giudizio delle cose del mondo è direttamente collegata ad una condizione minima di equilibrio psico/fisico, senza il quale si rischia di rendere a sé stessi la verità talmente abbacinante  da restarne sopraffatti totalmente e poi paralizzati, oppure, al contrario, la si obnubila completamente fino a giungere ad una patetica forma oracolare priva di congrua obiettività ed irrazionale.

Nei più testardi ed onesti lo sguardo si avvezza e si regola poi - con qualche personale e talvolta stravagante espediente - alla luce violenta, ed allora cadono i veli,  gli alibi e le illusioni (in modo particolare le favole che il nostro stesso senso di pietà auto-assolutorio raccontava a noi stessi per consentirci di schermare l'oggettiva disperata e scandalosa solitudine del vivere) e si comincia a digerirla, in un supremo balzo di furioso e dignitoso coraggio.

Sarebbe forse auspicabile non arrivarci mai con proprie induzioni, perché, una volta arrivati, il senso della verità è terribile e temibile. Ti fa venir voglia di smettere. Tutto quanto.
Prima, però, una che passa il tempo, suo malgrado, a cercare di lucidarsi a specchio i giudizi,  potrebbe aver ancora un pizzico di energia per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, ben sapendo che non conseguirà assolutamente alcun  fine positivo né riuscirà a trarne minimo giovamento.

Ora, una cosa che mi pare di aver imparato è che noi umani siamo condannati a parzializzare.
Se viviamo una cosa, non ne possiamo vivere anche un'altra; se una persona ci pare attraente ed interessante per un aspetto, saprà ben presto smorzare il nostro entusiasmo con l'esibizione di suoi imperdonabili difetti o mortificanti contraddizioni;  se facciamo una scelta la dobbiamo bilanciare con altra rinuncia;  se procrastiniamo la definizione della nostra vita moriremo irrisolti.

Ma la cosa più interessante e pure devastante è di una banalità oscena: pur avendolo compreso - dato che presto o tardi deve sempre succedere -, non possiamo reagirvi, ed accettiamo l'umiliante giogo del vivere parziale accompagnati dalla silente presenza costante di una nostalgia mordente e graffiante per tutto ciò che si continua a perdere.
Stiamo così ad osservare, impotenti, l'emorragia della nostra stessa anima, che si perde e si estingue in mille rivoli di rimpianto.
Rendere bastevoli gli istanti di tregua, in cui sfioriamo un piacere perfetto ed effimero, è la nostra più alta forma di eroismo.

Soffrire è conoscere, conoscere è soffrire, in special modo di delusione: l'umana più complessa e completa architettura conduce alfine al disamore per la vita, deterrente ad una qualsiasi partecipazione i cui presupposti, ben presto, verranno puntualmente disattesi.

*
Siamo stati e saremo, nelle mille parodie parziali della nostra vita, un'infinità di persone e tutte loro sono sempre una: quella che alfine rimane sola a stupirsene, nel tentativo di ricomporsi.
 
Ricordo quel ragazzino di forse undici anni, solare e sveglio, che gridò al volo a quella giovane donna a lui sconosciuta che sfrecciava sulla sua bicicletta , trafelata, per incontrare un amore che sarebbe più avanti, come tutti gli altri, finito: "Ma quanto è bella, signorina!", e c'era una specie di gioia disinteressata nel declamarlo al vento.

Eppure lei non era, né s'era sentita mai, né aveva desiderato in modo particolare d'essere, bella. L'impermanente felicità, semplicemente, la stava, a sua insaputa, illuminando.

Felicità ed angoscia sono bagliori improvvisi ed ingestibili.
Ora so anche che sono totalmente inutili ed insensati per chi non è capace d'accettare il gioco delle parti che si avvicendano e vicendevolmente si contraddicono ed annullano.
Ci vorrebbe leggerezza: una delle più pesanti imprese, se va contro la propria natura.

*

 

domenica 14 aprile 2013

Fatalmente, senza tregua

Le pareva che l'intero universo che lei conosceva  avesse deciso d'abortirla, come fosse un feto asfittico ed inadatto alla vita,  ed anche come se vi fosse ragionevole motivo per supporre che l'avrebbe fatto pure la restante parte di quello che lei non conosceva.
 
Evidentemente, si trattava di una cosa possibile, per quanto stravagante, una cosa possibile che rimaneva inspiegabile. Era possibile perchè le succedeva, come confutarne la verità?
 
Come ogni creatura che respira sulla Terra lei era sostenuta da un cieco e potente istinto ferino di sopravvivenza, ma non c'era cellula del suo corpo che non sapesse perfettamente che ciò, nella logica asettica, era esecrabile e per lei enormemente dannoso.
Come sempre accade la soluzione del più ostico degli arcani ha parecchie probabilità di trovarsi esattamente davanti, a portata immediata di mano e d'intelletto, ma la morbosa passione tipica negli umani di meravigliarsi e giocare alle complessità cervellotiche, puntualmente tende ad allontanarla.

E' da idioti illudersi che la verità non sia quasi sempre incresciosa, così come sperare che fissare il sole  non ferisca gli occhi.
A volte la verità è talmente scabrosa, e la sua luce così vivida e bruciante, da indurre alla disperazione, da condurre la vita di chi ne è investito o coinvolto verso la totale catastrofe o minacciarne l'uscita di senno.

La custodia di certa verità può condannare all'esilio  forzoso dal mondo. Sono verità impossibili, stupefatte, annichilite, incomunicabili.  

Così era stato per lei, così continuava ad essere.
Non c'è solidarietà d'anime che possa sottrarci all'ostinato pedinamento cui talvolta  ci costringe il dolore.

Forse, se solo esistesse, potrebbe l'Amore perfetto.
 


venerdì 5 aprile 2013

Autoreferente, per forza.

Un amico verso cui nutro stima ed affetto mi ha stamane offerto una sua lettura del carattere di alcuni miei post - ossia di me stessa - in questo decadente periodo della mia vita.
Ha ragione a definire "sigillato" il mio cuore e rimbrottarmi per l'ostinata concentricità dei pensieri che si affollano nella mente dando l'impressione che io vi possa godere di una certa autoreferenzialità.
 
Eppure, se anche fosse - ma non è esattamente così -,  l'autoreferenzialità, in una sua certa interpretazione non maliziosa e distante dal narcisismo, è anche il solo mezzo per assicurare libertà di giudizio e di pensiero, ché non c'è osservazione, scambio, riflessione, opinione,  perfino opera artistica o letteraria, che non siano in qualche modo influenzate o frutto e derivazione di plagi.

Il fatto che in quanto umani noi si sia fatalmente esseri sociali non significa che si debba conseguentemente confluire in mandria o gregge.
Ed invece, il più delle volte, per non dire sempre, è il massimo che riusciamo a realizzare: beliamo a staffetta, sostanzialmente lo stesso verso, se nell'ambito del medesimo gruppo.

Ma il mio amico mi ha fatto quest'osservazione perché mi vuole un po' di bene ed auspicherebbe che io mi sentissi meglio ed uscissi rinforzata ed indenne  dalla strettoia che la mia esistenza sta ora riservandomi, arricchita da nuove energie per l'accoglienza e la speranza.

Infatti io ci sto lavorando: non faccio che sognare per foraggiare, attraverso l'immaginazione, l'humus della rinnovata fiducia e dell'attitudine alla gioia.
Ed ho creato una piramide maya di sogni, che mi prefiggo di scalare con il progressivo recupero delle forze.
Però, per quanto mi sforzi nel favoleggiare, ad oggi all'apice non riesco a metterci gli umani.  

Sogna e risogna, comunque, io mi vedo indaffarata a svezzare elefantini orfani in una riserva in Namibia, oppure a condurre in perfetto stile "decresciuto-felicemente-ma volontario" un vecchio casolare tra Pastori maremmani dall'abbaio solenne e  verzure, offrendo in cambio di parco guadagno ospitalità rusticante.

Quando la realtà mi sveglia, il mondo è più orribile che mai, i problemi sono ostacoli titanici, e la vita vera più astratta del sogno.
Ed io capisco allora che non ho più scampo.   

 

giovedì 28 marzo 2013

Necessarie antifone

Se solo l'avessi capita prima - l'antifona, intendo -, avrei provveduto per tempo a fortificare e magari anche anestetizzare con preventivi esercizi di stoicismo e quel tocco di cinismo che serve a cauterizzare ogni ferita insanata, le conseguenze di una ipertrofica  sensibilità che, da quando ho memoria, rappresenta il mio stesso più crudele aguzzino e tiranno padrone.

Fino a ieri, piuttosto, nei miei immediati ed interiori giudizi sugli altri mi lasciavo sedurre dal facile impulso ad identificare quella altrui - spesso soltanto sedicente -  con la nobiltà d'animo e me ne consolavo intimamente: intuire una sensibilità dolente in un altro me lo rendeva d'impeto amico.
Ora so che sbagliavo in modo davvero stupido, degno di una dilettante dell'esistenza, vittima di pregiudizi ed ingenuità.
Soffre "atrocemente", per motivi che via via agli occhi degli altri appaiono opinabili, un sacco di gente, sempre relativamente a personali velleità frustrate, alcune scandalosamente "immorali" e superficiali rispetto ad altre, ben più giustificabili.

C'è chi, dal conforto di una posizione piccolo-borghese (giusto per partire da un livello "medio") data come assoluto e scontato riferimento (al di sotto del quale  esiste soltanto una sorta di magma  di borgorigmi incomprensibili e pure fastidiosi provocati da una razza solo apparentemente umana ma di fatto aliena che parla di ristrettezze materiali, mancanza di lavoro e di casa, impossibilità di condurre un'esistenza appena dignitosa, assenza totale di progettualità del futuro, ecc.), accusa l'atroce mancanza di una magione circondata da un più ampio giardino; c'è chi lamenta la difficoltà a sostituire la propria auto, mentre ad un altro viene rubata la bicicletta, suo solo mezzo di locomozione per rincorrere gli orari schizzati della propria esistenza; c'è chi si addolora per essersi spezzata un'unghia appena laccata e chi ingoia la comunicazione di una diagnosi medica letale...
Ebbene, queste sono considerazioni tutto sommato banali - voglio credere estremamente popolari e di comune osservazione - e, ciononostante, non insegnano assolutamente nulla.

La nobiltà d'animo, la grazia innata, la magnanimità, hanno ben poco da spartire con l'automatismo che fa avvertire stilettate di dolore allorquando la natura - sempre morbosa e riflettente - dei rapporti con gli altri ce ne fornisce puntuali occasioni: quasi sempre è la nostra vanità ad accusare colpi; è l'orgoglio umiliato: si tratta di molto volgari elementi tipici di  umano, che trae benessere soltanto nell'evocare, nell'amare, nell'idolatrare soltanto sé stesso. Soffriamo spesso compatendo noi stessi, nell'umiliazione del nostro consueto tronfio ego consapevole di non incidere e fulgidamente risplendere in questo mondo, che fingiamo di disprezzare.

*
Quante volte abbiamo versato lacrime vere, nella penombra delle nostre tane (tane ingombre degli ammenicoli del mondo), sdoppiati nell'assistere al nostro stesso funerale. immaginando le pietose lacrime di chi accompagna il nostro feretro? Ecco: piangiamo commossi sul nostro stesso distacco dallo spregevole mondo, con una punta di soddisfazione se echeggiano le note della Lacrimosa mozartiana, che, per chissà quali  pretesti presuntuosi, immaginiamo degna di accompagnare l'irrilevanza della nostra uscita di scena.
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Il solo modo di star bene nella propria pelle è prendere le distanze innanzitutto da sé stessi ed osservarsi con lo stesso distacco con cui si guarda uno sconosciuto, un tramonto, un albero, un sasso.
Allora, ecco che il giudizio non più obnubilato dal molle narcisismo, si fa più chiaro ed oggettivo, fin sereno.
Siamo più patetici o più ridicoli? Tentenno.

Ogni errore clamoroso, uno degli innumerevoli errori di critica che han alimentato il moto perpetuo della giostra di aspettative (necessariamente) deluse di cui carichiamo l'altro, reca un dolore, tutto sommato, meritato.

Tutto ciò per dire a chi sentivo amico, ma che non lo è né ha mai dichiarato d'esserlo, che non ce l'ho con lui e che le mie illegittime aspettative silenti sono sempre, sempre, clamorosamente sbagliate.

 

mercoledì 13 marzo 2013

Qualcosa che duri

Sentore di uno stato generale di rapporti sociali, economici, politici, umani, semplicemente nefandi e comunque ultimativi: forse è davvero quasi finito tutto.
Lo squarcio è talmente grande ed osceno che nessuno partorisce una seppur fantasiosa idea di come ripararlo. Così rimangono, per sedare il malessere, l'irrisione dell'altro, la faziosità (consolatoria illusione d'appartenenza), il sarcasmo risentito, la farneticazione, il perenne farfugliamento a sostegno di cause sempre parziali.
La realtà, intanto, non verrà mutata dall'aumento dello strepito.
Pezzo su pezzo, adesione su adesione, connivenza su connivenza, concessione su concessione a sterili edonismi, noi tutti ne abbiamo consentito la costruzione.
Noi siamo, tutto sommato, una stirpe bastarda di predatori violenti.
Abbiamo permesso che la nostra infinita capacità di bassezza morale fin dagli albori delle civiltà ci rendesse schiavisti, fascisti, fanatici, assassini, opportunisti.
Oggi, così colpevolmente lasciatici imborghesire e rammollire dall'offerta di miserabili piaceri indotti, quelli di noi che annaspano alla ricerca di una nuova verginità, od almeno sono inadatti ad un totale reclutamento, dopo una vita di resistenza difettano ora delle forze per rifugiarsi ancora in un'altra utopia, mentre tutti gli altri vivono, come possono, o come pensano di volere.

"Rivedo, con una meraviglia sgomenta, il panorama di queste vite e, nel provare spavento e pena e sdegno, mi accorgo che non provano spavento né pena né sdegno proprio coloro che ne avrebbero tutto il diritto: coloro che vivono quella vita. E' questo l'errore centrale dell'immaginazione letteraria: essa suppone che gli altri sono noi e che devono sentire come noi. Ma, per fortuna dell'umanità, ogni uomo è soltanto chi è, e al genio è concesso soltanto di essere qualche persona in più." (F. Pessoa, Il libro dell'inquietudine).

I profeti di una inevitabile ma anche salvifica "decrescita felice" sono pure gli stessi che immaginano poi il massimo della tecnologia quale panacea ai mali ed alle sperequazioni del sistema.
Ossimori viventi.
Gli altri, balbettano o blaterano.
A me par vero che il Sapiens-Sapiens abbia comunque concluso neppure tanto onorevolmente il suo ciclo evolutivo.  Forse, davvero, il futuro sarà di cervellini galleggianti in gigantesche vasche che comunicheranno attraverso impulsi nervosi le loro realtà immaginarie, infinitamente velleitarie, ed alla fine ridicole, oppure uno scenario di nuove barbarie, ove almeno sarà bandita l'ipocrisia di ritenersi qualcosa di diverso da ciò che nostra natura detta: lupi tra lupi.

L'umano sensibile ed onesto, non può che provare compassione per sé stesso ed arretrare nel proprio soggettivismo silente, sperando in relazioni - di qualsiasi natura - elettive o simpatiche.
Qualcosa che duri, forte come la tenerezza.

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domenica 3 marzo 2013

Tipi -12- I leziosi

Sono tanti, tantissimi, una schiacciante maggioranza.
 
Hanno il potere di abbassare in modo preoccupante la già bassa tua stima degli uomini, in conseguenza di comportamenti disarmanti ed annichilenti. Non importa quanto siano gravi: è irrilevante la considerazione dell'oggettiva importanza di una questione o di una circostanza, perché lo stile del comportamento nei rapporti infraumani e sociali è fisso in ogni persona.
 
Può essere che ti abbiano lavorato accanto per il tempo sufficiente ad intessere rapporti di cordiale vicinato, qualche scambio di opinioni, sollecitati da problematiche comuni; può essere che ci sia stato bisogno occasionalmente e vicendevolmente di scambiarsi piccoli semplici favori (ricevere un pacco o rendersi mediatori in assenza dell'altro senza il minimo interesse); può essere anche che si siano subìti uno stesso disagio od una stessa scorrettezza da altri, sì da non poter negare l'esistenza di uno stato condiviso.
Succede, insomma, che alcuni elementi possano accomunare due semplici conoscenti.
 
Ebbene, sembrerebbe consequenziale che se uno dei conoscenti si trasferisce altrove, prima di andarsene definitivamente passi da colui che rimane al suo posto e dica: "Allora io vado, qui ho finito. Auguri di buon proseguimento e buona fortuna".
 
Invece no, mica va così.
Il tipo 12 se ne va e basta, con una bella sgommata, e  lì finisce. Un lampo ha lo stesso destino e costituisce perfetta allegoria.
 
Questa è la prova ontologica della grande miseria degli umani rapporti.
 
Pare un'inezia, ed invece è sindrome grave.
 
La gentilezza e la cortesia sono in via di estinzione, piegate come sono ormai a finalità sempre utilitaristiche.
La schiacciante maggioranza di cui sopra, i tipi 12, saranno forse pure capaci di leziosità -probabilmente anche spesso - e, talvolta, sfoggeranno sorrisi e cordialità in grado di ingannare i loro interlocutori, ma ciò avverrà soltanto in corso di rapporto, a testimonianza del fatto che trattasi di esternazioni mendaci ed effimere.
Estinto il presupposto pratico che le motivava, si estingue anche l'interesse per l'altro essere umano.
 
Ma non si estingue, ché ciò che non è mai stato davvero non può morire.
Se l'Uomo si dice animale sociale è soltanto perché digeriamo  straordinariamente l'ossimoro che società sia assembramento funzionale a qualche scopo di soggetti profondamente ed ostinatamente tra di loro estranei e lontani.
 
 

sabato 23 febbraio 2013

"Sarai puro. Perciò ti maledico"

Il mio primo pensiero, la mattina alle 7, quando mi alzo per cominciare la mia giornata, sarebbe in verità piuttosto mortificante per una tizia che, caparbiamente, procrastina il suicidio nella segreta speranza di non aver ancora capito niente e di incorrere in un madornale e generale errore interpretativo di sé, di ciò che ha bloccato fino ad oggi le potenzialità latenti nella sua indole, di tutti - indiscriminatamente tutti - coloro che a vari livelli hanno rappresentato e rappresentano il suo altro.
 
Il pensiero, dunque,  immediato,  fluido e spontaneo è sempre lo stesso - incipit di ogni risveglio - e le bisbiglia dalla sua più cavernosa interiorità: "Come sarà bello, stanotte, riabbandonarsi al sonno".
 
Eppure, la mia non è un'indole letargica: io sono stata fino a ieri, forse e piuttosto, iper-attiva, e da sempre.
Agitarsi però non serve più a nulla, neppure a sopravvivere: l'ho appreso in modo inconfutabile di recente, quando m'è accaduto di veder crollare uno dopo l'altro, per motivi che serve a poco raccontare ma aventi la stessa veemente forza distruttiva dei cataclismi naturali, tutti i vari bastioni dietro cui proteggiamo e giustifichiamo in genere la vita. Se ciò non spalancasse direttamente le orribili fauci del nulla potrebbe anche essere un'eroica operazione di pulizia. 
Pare contraddittorio, invece costituisce coerentemente la mia vita binaria.
Oggi è il solo modo di vivere per un umano consapevole della sua condizione esistenziale oggettiva che tenti di rispettare la sua propria integrità, la sua personale e particolare verità e che sia duro, freddo, smaliziato, disperato, lacerato dall'offesa della nascita - questo oltraggio che pago (pure!) da 53 anni -, dignitosamente ed onorevolmente disadatto, perché inadatto.
Semplicemente e totalmente inadatto ad un mondo reso così, ma anche fatalmente ed oggettivamente fatto così.
 
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Sarà per tale inadeguatezza, allora, che mi commuovo intensamente e raramente, ormai, al ricordo di alcune potenti metafore in cui mi riconosco fino all'osso, che magari son poco o meno amate invece da chi apprezza tutto il resto della produzione artistica, letteraria e filosofica del suo autore.
" [...] 'Sarai puro./ Perciò ti maledico'. (gli dice il custode del'eternità prima di gettarlo nel mondo. ndr.)/Vedo ancora il suo sguardo/ pieno di pietà - e del leggero orrore/ che si prova per colui che la incute, /lo sguardo con cui si segue/ chi va, senza saperlo, a morire,/ e, per una necessità che domina chi sa e chi non sa,/ non gli si dice nulla -/ vedo ancora il suo sguardo,/ mentre mi allontanavo/ - dall' Eternità - verso la mia culla. [...]": dello scrivere di Pasolini ammiro enormemente nella stessa misura lo stile e l'impavida potenza dei contenuti, siano essi in versi che in prosa.

Non mi commuovo più - ché mi son fatta ghiaccio -, invece, pur considerandole indubitabilmente vere, alle rivelazioni del satiro che sentenzia senza tema di smentita la sostanziale sciagura per l'uomo riflessivo di fare la sua comparsa nella vita: raccoglierà soprattutto dolore atroce per l'anima e strazianti dubbi irrisolvibili.

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Poco alla volta mi si assottigliano le idee per ricavare espedienti in grado di contrastare una fatale, immota, perfino placida disperazione dettata dalla consapevolezza di un'invincibile assenza di ulteriori oggettivamente onesti motivi e comprendo che il solo modo efficace sarebbe l'immersione in una qualche passione, di nuovo, come se già non fossero fallite tutte dimostrando ampiamente come siano effimere, alla lunga frustranti, inconcludenti ed infantili.
E' ridicolo: si vive la propria umanità nella consapevolezza che non troverà alcuno sbocco nobile e potrà al massimo percorrere qualche abbozzo di espressione, quasi sempre fallimentare.

Dalla sponda di uno dei due versanti della mia vita binaria - quello pretestuosamente considerato di veglia -, guardo intanto gli omini affaccendati a chiedere voti, ad improvvisarsi equilibristi nelle più nefande contraddizioni in persino palese malafede, a ripresentare con faccia di bronzo degna di giullari intenzioni e promesse retoriche, mentre omini riceventi rispondono diligentemente con la irrisoria indignazione dei servi sconfitti, che alla fine li compiaceranno comunque, pur borbottanti.
Disprezzo cosmico, nausea.


(Dov'è l'amato letto, dove sta la tana: urgono. L'odore stantìo di codeste mummie è intollerabile.)

Rimarrebbe il privato, stretto stretto. Temo anche che sarà pieno di silenzio.
Ma non importa, in fondo.
L'ideale, per immaginare la libertà e la felicità.
 
 

martedì 12 febbraio 2013

Pensieri circolari, sconnessi volteggi di falene attratte dalla fonte di luce. E' luce artificiale, mortifera, che brucia le ali, ma loro non se ne avvedono. Gli altri.

-Stasera bisognerebbe scrivere di papi e di canzoncine, per essere presenti al mondo, ché così fan tutti.
L'osservazione dell'esercizio della  contraddizione nel criticare aspramente un mondo in cui si anela comunque al protagonismo ed in cui in caso di  (in fondo) agognata conquista di un qualsiasi ruolo di spicco quelle stesse critiche subirebbero un processo di mitigazione "magnanima", mi ha sempre fatto sorridere. Amaramente.

-Le  mie sparute amicizie mi deludono ininterrottamente da 30 anni. Io  servo loro: sono un'impareggiabile ascoltatrice. Non mi capacito della mia stessa abilità nella sopportazione delle miserie umane. Loro hanno me. Io ho cane e gatto. I rapporti umani hanno esclusivamente natura mercantile; i miei istintuale e ferina.

-Spesso mia madre interrogava Dio, piuttosto risentita. Gli chiedeva, con voce alterata, "Ma insomma, si può sapere che t'ho fatto?"

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giovedì 7 febbraio 2013

Tipi - 11 -

L'Italia è quel che è: nel costume, e politicamente, essenzialmente e generalmente una vergogna.
Non ci si può far nulla, purtroppo, fino a che la popoleranno gli appartenenti al tipo 'Italiani'.
Perché gli Italiani hanno fra le altre una caratteristica davvero marcata: non cambiano - cascasse il mondo non cambieranno - e pare covino nel dna una tenace attitudine all'ipocrisia e all'autoinganno.
Io non credo affatto, però, che ciò rappresenti un chiaro indice di stupidità genetica: penso piuttosto che la miscela venefica che ha tanto marcito il carattere nazionale sia composta di un misto di spocchia intellettuale vanesia che ama oltremodo esibirsi e parlarsi addosso, in una minoranza, ed endemica ignoranza, oggettiva e dimentica dei fatti passati, per il restante.
 
Hanno un'insopprimibile desiderio intestino di abbandonarsi a fascinazioni inossidabili, perfino a dispetto della smentita data dalla realtà.
Gli uni e gli altri - è evidente -, non nutrono alcun amore né rispetto per il proprio Paese: piccole anime sono incapaci di rappresentarsi il massimo bene come la risultante di molte sinergie di valori soprattutto non monetizzabili e comunque collettivi.

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Se così non fosse, quella gentile e simpatica signora, con la quale ho cortesi e correttissimi rapporti professionali, non mi avrebbe detto: "Ma forza, ché adesso torna Silvio, e finalmente metterà tutto a posto. No?...", ed attendeva un mio sorriso d'assenso, un ammiccamento, un rinforzo d'amichevole intesa.
Com'è stato doloroso mordermi la lingua e fingere un'improvvisa sordità, parlare d'altro e precisamente dell' oggetto del nostro rapporto, sì da non incorrere nel rischio di perdere una cliente, che è un lusso che non posso davvero permettermi.
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Cedere alla fascinazione è, nella pratica ipnotica, possibile soltanto a soggetti particolarmente suggestionabili e soprattutto inabili alla critica.
In secondo luogo avviene in stato di malafede, e così si ha la fascinazione finta, due volte colpevole e due volte ipocrita.

Questi tipi sono disarmanti: una persona normale, cioè onesta - come qualsiasi persona normale dovrebbe essere senza bisogno di alcuna sottolineatura -, non può trovare alcun argomento logico e razionale da opporre al loro ostinato desiderio di permanenza nell'incantesimo, vero o simulato che sia.
Al fideismo non si può opporre ragionevole argomentazione alcuna, mentre invece qualsiasi feticcio, mantra insulso, ammiccante immagine, pietosa barzelletta, proclama ridicolo e palesemente falso, scarruffata  a cagnolino dolce e commovente durante un talk show , sorriso smagliante con battutina pseudo-arguta, e via così, hanno inossidabile potere di persuasione.
 

venerdì 1 febbraio 2013

Rien ne va plus

Comprendo che ormai il momento è arrivato e che procrastinarne ulteriormente l'accettazione altro non sarebbe che una prova di ignavia e perciò me lo dico, anzi, me lo urlo dentro nel più perfetto silenzio: "Les jeux sont faits. Rien ne va plus."

Tanto, per l'appunto, la vita non è che un gioco al massacro, ed i massacrati sono innanzitutto la primigenia purezza perduta col nascere ed in secondo ordine le speranze, i sogni, quasi tutte le velleità.

Tutto sommato, seppure non sia concepibile un umano privato di immaginazione e che possa evitare di rappresentarsi attraverso desideri e speranze la sua stessa vita, il massacro delle velleità non è sempre un male: generalmente ci sovrastimiamo in modo decisamente imbarazzante e la lezione conseguente delle disillusioni subite   quanto meno ci invita al ridimensionamento.

Io che aborro la violenza gratuita in ogni sua forma quando esprime desiderio di sopraffazione e potere, io che non ho cuore di schiacciare le formiche, comprendo singolarmente in questo preciso istante che cosa abbiano potuto mai intendere forse coloro che hanno visto bellezza nella guerra: sopravvivere, vivere, in stato d'assedio o di allerta, o schiacciati da un'impotente sensazione di carenza di giustizia, può affinare i sentimenti, le qualità intrinseche, la più crudele ed alta delle sensibilità, oppure svelare l'ottusità del vuoto.

Dicevo, quindi, che ad un certo punto della vita può succedere d'essere così acciaccati, stremati, disillusi e ferocemente annoiati da non trovare più il fiato né lo sprone per rilanciare una qualsiasi posta, ma, se non altro, poter anche con grande serenità e senza alcuna remora ed esitazione riconoscersi  arrivati in qualche posto preciso e definitivo.  Si tratta di accettarlo e basta.

Ecco, sono arrivata, alfine. Il mio posto l'ho trovato, anzi, riconosciuto, perchè vi radico, in verità,  da sempre e giacché io sono assolutamente incompetente nell'esercizio d'esistere a queste precise condizioni odierne ed incapace di sentirmi presente alla vita quotidiana, questo luogo, evidentemente, coincide esattamente con la mia stessa assoluta ed indiscutibile incompetenza nel vivere. Ovvero: io posso esprimermi senza infingimento soltanto se non ci sono completamente anche quando dò l'impressione d'esserci. Sto tra abbaino e fronde, e non per scelta, ma per mio proprio determinismo innato, né esiste un solo modo per scendere.
Ciò che vorrei, in fondo, non conta nulla, giacché non posso in alcun modo ottenerlo e qui intorno non vi sono - né quest'anima anarchica ed incresciosamente ipersensibile ha mai intuito in altre anime - corrispondenza o similitudini.

Dolore che respira, per impossibilità di comunione ed espressione; sentore di assenza perenne, che somiglia ad un accordo straziante, alla lunga ridicolo, come ogni pretenzioso pensiero umano.