domenica 27 aprile 2014

Appunti Antropocentrici -3-


 
 A me succede ciclicamente questo: è un gigantesco, mostruoso, soverchiante nodo metafisico e anche pure fisico che mi provoca una sorta di rigetto generale della maggioranza degli automatismi del vivere sociale e cosiddetto civile con conseguente paralisi. 
Le azioni che mi recavano letizia ed un surrogato di effimera serenità, allora,  come l'ascoltare musica, imbrattare tele, creare qualcosa con le mani, lasciarmi assorbire da un romanzo, perdono qualsiasi potere, non assolvono al loro compito, non mi guariscono.
Tutto confluisce in una grande cloaca di smarrimento e di indistinta e generalizzata inquietudine.
 
Ogni male è riconducibile agli uomini, perché un umano non può mai, in nessun caso, prescindere dall'esistenza degli altri, neppure se optasse per la scelta drastica dell'eremitaggio. L'eremita è forse più di chiunque altro consapevole del suo intrinseco e fatale contatto con i propri simili, pure se non li incontra e non li vede: lo è proprio perché tenta di estrometterli dal suo stesso ossessivo bisogno attraverso l'opzione della negazione e della fuga.
 
Io, vorrei, vorrei tanto ammirarli, amarli, o anche solo provarne interiore ed autentico rispetto.
Invece.
 
Ora li odio tutti, ché mi hanno, ognuno per la loro parte, costretta alla prudenza ed alla circospezione, inducendomi a deviare dalla mia natura.

Capisco, perfettamente, di soffrire di un disturbo vasto ed inguaribile e lo verifico ogni qualvolta disparati e spesso occasionali interlocutori manifestano stupore per le mie motivazioni: "Soffri per le contraddizioni cui ogni umano si piega, miserabilmente, nel tentativo di darsi equilibro e un po' di pace; soffri perché le loro parole sono vane ed effimere; soffri per l'egoismo e per la rincorsa al tornaconto; soffri perché tanti dei loro dolori sono illegittimi e ridicoli; soffri perché sai che non incontrerai mai in nessuno di loro una teoria di integrità che qualcun altro non debba scontare nell'indifferenza; soffri perché dialogano su argomenti imbecilli; soffri perché sono incapaci politici, incapaci padri, incapaci madri, incapaci figli, incapaci amici, incapaci amanti; soffri perché trovano divertenti occasioni di piccole mondanità che a te danno il vomito; soffri perché credono in Dio e non riesci a conciliarlo con  una loro supposta intelligenza; soffri perché desiderano partecipare comunque allo stesso consorzio umano che criticano svendendosi l'anima e traendo pure sollievo dalla palese illusione di appartenenza? Ma a te, A TE, infine, perché importa, che te ne può importare? Sei pazza."
 
 

9 commenti:

  1. Una delle contraddizioni che più avverto nella mia misantropia è che odiando le persone, che ad esempio passano per la strada, che si odiano tra di loro e odiano anche me, ammesso che mi notino, finisco per comportarmi appunto come loro, e cadere nel catino della loro bruttezza e brutalità. E invece vorrei differenziarmi da quelle moltitudini. Per contro l’indicazione evangelica di uscire da sé stessi e andare incontro all’altro mi vede vicino su un piano teorico, lontanissimo su un versante pratico e applicativo. Purtroppo. Era meglio morire da piccoli.
    Ciao, Stefano

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    1. Ma tu mi dicesti che cessare non si può!
      La coscienza è il vero dannato destino di noi tutti.
      Un abbraccio fraterno alla tua misantropia (che mi immagino vestita con palandrana...) :-)

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    2. Da piccoli si poteva cessare, non sapevamo che esisteva la reincarnazione!
      La coscienza, ma anche l'ipersensibilità ci sono avversarie... e quel narcisismo che ci porta a mischiare il nostro dolore con il piacere della comunicazione letteraria... spesso vorrei smontare da queste impalcature e dire nel modo più semplice possibile di star male, a te non capita?
      La mia misantropia indossa corazze!

      Stefano

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    3. Più che esercizio edonistico egocentrico direi che in alcuni casi la scrittura è -pur precaria- valvola di sfiato che procrastina il tempo della sicura implosione: dolore e solitudine assoluti interiori, altrimenti, sono insostenibili. Questa galassiuccia, infine, è il mio urlo, ché a dire nel modo più semplice possibile "mi fa male la vita" ho ottenuto sguardi imbarazzati, increduli, ottusi, indifferenti. Così, almeno, se non è asettico silenzio in risposta, sono le gradite parole di un'altra anima dannata e gentile, il cui disagio non obnubila la sua stessa intelligenza.

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    4. L'arte, o la comunicazione letteraria, è una particolarissima specie di veste che quanto più è elaborata tanto più svela l'uomo, invece di coprirlo. Però a volte sento il bisogno di strapparmi "abiti" di rappresentazione.
      "Mi fa male la vita" può generare quella forma rovesciata di violenza che è il pietismo, più che provocare indifferenza.

      Stefano

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    5. Infatti, sì, ed il pietismo è tipico degli spiriti rozzi e triviali.
      La difficoltà è duplice: approdare all'essenziale semplicità, e riconoscere l'interlocutore degno di riceverla.

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    6. E allora come ci si salva?

      Stefano

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    7. "Bisogna immaginare Sisifo felice".

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    8. Per immaginare Sisifo felice però non bisogna immaginare!

      Stefano

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