lunedì 16 maggio 2016

Annottando

Ma che cosa farei se avessi vero possesso della mia vita, se ne potessi disporre in piena libertà, se questa pietra di dolore ed orrore per la consapevolezza d'essere un individuo di fatto schiavizzato, di vergogna e frustrazione  per la coattiva appartenenza alla mia stessa specie che ha consentito tutto questo, che opprime il petto in ogni istante della veglia, per prodigio si sbriciolasse?

Senza strada ideale da percorrere, rimango, molto mestamente, bloccata, nello sciupio di un'esistenza appesa al capestro della sopravvivenza materiale: ad oggi non c'è nulla, assolutamente nulla, di degno d'essere sognato e perseguito, perché, similmente, niente e nessuno saprebbero prescindere seriamente ed effettivamente dagli stilemi comuni del vivere, con tutto quanto di ipocrita, mediocre, noioso, coercitivo e profondamente ingiusto che essi comportano.
La tirannide della comune filosofia della "normalità" pare invincibile.

Mi sono spesso sentita dire: "... cos'è, poi, la giustizia, se non un'opinione ed un umore? La giustizia è un concetto culturale e fluttuante".
Dissento nel modo più assoluto, e  credo, invece,  di saperlo con una certa esattezza. Il solo mondo giusto è quello in cui innanzitutto i  privilegi sono, molto semplicemente, inconcepibili perché eticamente abominevoli e l'etica stessa è la prima motrice delle azioni umane.
Dopodiché, e solo dopo, ogni singolo umano potrebbe interrogarsi su quale potrebbe essere la sua funzione nel mondo e la sua attitudine alla felicità.
Di fatto, però -me ne rendo perfettamente conto-, l'esortazione all'auto-spoliazione non riscuote mai sentimenti di simpatia.

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I sentimenti più puliti e commoventi rimangono quelli istintivi ed abbozzati. L'approfondimento, che ci cala nel nostro e nell'altrui abisso, puntualmente li corrompe.
Il nostro tocco è sempre foriero di morte. Perché?